Le finestre sono sbarrate, le tapparelle abbassate. I rumori da fuori arrivano attutiti, le cicale un vociare sommesso nei platani. Ci sono trentasette gradi. Alle due del pomeriggio non so ancora cosa mangiare. Spingo la manopola del gas e la giro, il suono regolare e secco di accensione accompagna la fiamma che si apre a ventaglio, blu intorno al suo cerchio. Lo rispengo subito. Era solo un tentativo, nella cucina piccola quel calore blu mi si conficca subito nella pelle. Non saprei nemmeno cosa cucinare. Ci vorrebbe qualcosa di fresco, qualcosa di rapido, qualcosa che dia un po’ di forza a questo corpo affaticato dall’afa.
È un’altra estate di caldo da record. Mangiare ai tempi della crisi ambientale: analizzare questa congiuntura può offrire una prospettiva affascinante sulle nostre reazioni in merito alla crisi ecologica, ma anche sulle incarnazioni delle nostre preoccupazioni, sul modo in cui il nostro rapporto con l’ambiente è cambiato (anche piuttosto recentemente) e come possiamo immaginarci in relazione alle ecologie che stanno fuori e dentro di noi.
Da un lato si può parlare di agrobusiness, di monocolture, di tutte quelle pratiche industriali che contribuiscono massicciamente alle emissioni di gas serra. Dall’altra, la sicurezza alimentare viene messa immediatamente a repentaglio dall’acidificazione delle acque, dalla desertificazione, dalle alluvioni, dall’aumento delle temperature e dalle multiformi trasformazioni socio-ecologiche. L’alimentazione è una questione delicata, vulnerabile ai danni ambientali, e di conseguenza, lo siamo anche noi. Mangiare lega materialmente e simbolicamente il corpo all’ambiente. Quello che succede alla terra succede anche al nostro cibo, e i timori che ciò desta danno luogo a nuovi appetiti.
L’uso di pesticidi, le contaminazioni chimiche, le condizioni di lavoro, la presenza di interferenti endocrini e sostanze potenzialmente cancerogene nel cibo che possiamo trovare nei supermercati – per non parlare delle proprietà intrinseche di specifici alimenti – condizionano fortemente le nostre scelte alimentari. Anche in Italia è avvenuta un’esplosione di popolarità dell’etichetta biologica, di mercati di ortofrutta a chilometro zero e di alternative salutistiche ai cibi ultra processati. Il cibo ‘genuino’ e salutare, è risaputo, non è facilmente accessibile a livello economico, soprattutto nei centri urbani, e le critiche all’elitarismo e all’ideologia neoliberale sottese sono molteplici e ragionevoli. Ma questo modo di vivere l’alimentazione è un fatto abbastanza recente.
L’antropologo e gastronomo Piero Camporesi traccia la storia dell’alimentazione in Italia (con particolare attenzione rivolta alla zona appenninica), individuando continuità e discontinuità tra fasi storiche. Ne La terra e la lunaCamporesi vede l'alimentazione nell’era pre-industriale come un ponte tra il corpo individuale e l'ambiente naturale e sociale. Il cibo non era solo nutrimento, ma consentiva di interiorizzare l’ambiente, di mediare tra il materiale e il simbolico, il cosmico e il terreno, il naturale e il culturale. Era un atto cosmico, che rimandava al ciclo di vita, morte, rinascita. Si mangiava secondo le fasi lunari, secondo le stagioni, in un tempo scandito da rituali: attraverso l’alimento, il corpo si nutriva del mondo e ne assumeva la materia, ma anche la forza, l’anima, il rischio. Il nutrimento è così strumento di vita, ma anche possibile veicolo di contaminazione. Nella transizione a un mondo post-industriale, post-agrario, Camporesi individua una paura sempre più crescente della contaminazione. Il corpo è minacciato dall’ambiente attraverso il cibo stesso, che viene sterilizzato, sigillato, separato dal contatto umano. Si passa da un ambiente “organico” e condiviso a uno asettico e ansiogeno. I regimi igienici saranno incredibili, ma le verdure sono insapori.
Mi chiedo spesso come mai. Come mai le verdure dei supermercati sappiano di acqua sporca. E come mai le verdure dell’orto di mia nonna siano tra le più deliziose che io abbia mai mangiato. È la tecnica agricola, l’uso di fertilizzanti, la qualità del terreno – ma sarà anche che avranno preso un sapore di glicine, di geranio, di nespolo, delle altre piante che vi crescono accanto? Sarà che le ha piantate, annaffiate una persona che mi ha cresciuta e nutrita tutta la mia vita?
Si vedono le montagne dall’orto di mia nonna, so la loro forma a memoria. Si sovrappongono, si incastrano l’una nell’altra, linee massicce, spigolose, poi rarefatte, orli di vetta, di aria, di millenni. I solchi di antichi ghiacciai si stagliano sulla faccia spoglia di roccia. Vorrei sapere il sapore che hanno, sollevarne i segreti con la lingua, nutrirmi anche io di tempo, memoria, rito.
Sarà forse il caldo che mi dà alla testa. O la fame senza meta. Una fame senza contesto. Non so cosa mangiare, non so cosa mi darà forza, non so cosa mi permetterà di sentirmi connessa all’esterno, senza paure di contaminazione, ansie morali e preoccupazioni climatiche.
Le finestre sono sbarrate, le tapparelle abbassate. I suoni da fuori arrivano attutiti.
Cala la sera, arriva un po’ di fresco. Aprire la finestra è come alzare il volume. Le cicale stridono nelle orecchie. Qualche porta più in giù, i vicini stanno cucinando. Mi arriva nelle narici il profumo di soffritto, cipolla, aglio, olio. Mi si apre lo stomaco, la mia fame prende consistenza, spessore, colore, la mia bocca si riempie di saliva. Tappata in casa, la mia fame era troppo isolata, troppo mia. Ma non è solo mia. È là fuori, mi aspetta, mi aspetta nel mondo.