Negazionismo climatico ed eco-ansia: comprendere le barriere psicologiche e istituzionali all’azione

Nel 2025, il consenso scientifico sul cambiamento climatico è più solido che mai. La consapevolezza pubblica è cresciuta, i disastri climatici occupano le prime pagine, eppure l’azione concreta continua a tardare. Il negazionismo, un tempo inteso solo come rifiuto dei fatti scientifici, si è trasformato in forme più sottili e insidiose: minimizzare l’urgenza, dare priorità ad altri problemi, o aggrapparsi all’idea che il mercato o la tecnologia ci salveranno da soli. Parallelamente, un numero crescente di persone, soprattutto tra i giovani, riferisce di soffrire di l'eco-ansiapaura cronica, dolore e senso di impotenza di fronte al futuro del pianeta. Per capire perché la società rimane intrappolata in questo paradosso – consapevolezza senza azione – bisogna indagare sia la psicologia del negazionismo, e il modo in cui le istituzioni culturali alimentano l’inerzia,senza dimenticare il ruolo che la comunicazione può avere nel trasformare la disperazione in impegno costruttivo.

L'evoluzione del negazionismo

Nel dibattito pubblico, il negazionismo climatico viene spesso ridotto alla caricatura di chi rifiuta i dati: negare l’aumento delle temperature, i gas serra o la responsabilità umana. Ma, come ha mostrato un’inchiesta della CBC nel 2020, questa non è più la forma dominante. Oggi il negazionismo si manifesta in varianti più accettabili socialmente.Politici che ammettono l’esistenza del problema, ma sostengono che il lavoro e l’economia vengano prima. Commentatori che ridicolizzano le politiche climatiche confondendo il meteo del giorno con le tendenze a lungo termine. Leader che liquidano gli allarmi come “catastrofismo”, sminuendo così l’urgenza di agire.

Secondo lo psicologo Per Espen Stoknes, non c’è da stupirsi. Il negazionismo non nasce solo da ignoranza o ostinazione: è un meccanismo profondamente umano di difesa.Quando un’informazione minaccia identità, lavoro o visione del mondo, scatta l’evitamento. Per un lavoratore del petrolio in Alberta o in Norvegia, le critiche ai combustibili fossili toccano direttamente il proprio senso di sé. In questi casi, il negazionismo non è tanto un fraintendimento dei fatti, ma una protezione identitaria -un rifiuto di accettare verità che appaiono esistenzialmente insopportabili.

Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, è stato esplicito: l’essere umano fatica a confrontarsi con il cambiamento climatico perché la mente è tarata per reagire a minacce immediate, visibili e nuove – un predatore, un meteorite – non a rischi diffusi e lenti come l’accumulo di CO₂. Questo “mismatch evolutivo” spiega perché siamo rapidi a reagire a crisi come terrorismo o pandemie, ma incapaci di mobilitarci con la stessa urgenza contro il riscaldamento globale.

Un altro contributo importante è quello di Robert Gifford con i suoi “Draghi dell’inazione”: una cornice che elenca le barriere psicologiche tra buone intenzioni e azioni concrete. Dall’ignoranza all’incertezza, dalle abitudini alle ideologie, fino alla sfiducia e alla percezione del rischio: anche chi accetta la scienza spesso finisce per privilegiare la comodità personale, i desideri di consumo o un senso di impotenza. Il negazionismo, dunque, non è solo incredulità: è anche distrazione quotidiana, giustificazione, inerzia.

Eco-ansia: il rovescio del negazionismo

Se il negazionismo è fuga, l'eco-ansia è sovraesposizione alla realtà climatica. Molti giovani descrivono il risveglio quotidiano con angoscia, bombardati da notizie di barriere coralline che collassano, eventi estremi che si moltiplicano, punti di non ritorno che si avvicinano. Come osservava Behavioral Scientist, i media puntano sul catastrofismoperché attira attenzione. Ma il bombardamento di scenari apocalittici porta spesso a paralisi. Chi si sente sopraffatto dalla disperazione tende a disimpegnarsi, incapace di trasformare la paura in azione duratura.

L’eco-ansia non è di per sé negativa: può alimentare attivismo, impegno comunitario, cambiamenti di stile di vita. Ma senza contenimento rischia di portare a burnout, depressione, o a una paralisi che finisce per assomigliare al negazionismo. Le due risposte – negare o restare schiacciati dall’angoscia – sono quindi poli opposti di uno stesso spettro psicologico, entrambi ostacoli a risposte collettive efficaci.

Perché la comunicazione è importante

Il problema non sta solo nella mente umana, ma anche in come comunichiamo la crisi climatica. L’articolo We Need to Change the Way We Talk About Climate Change sostiene che i messaggi basati sulla paura, le espressioni come “minaccia esistenziale” o “crisi globale”, e la retorica della colpa non hanno prodotto il cambiamento necessario. Al contrario, rischiano di generare rassegnazione.Come scriveva l’autore: “una persona in burnout non può salvare il mondo”.

Un’alternativa è la comunicazione positiva. Non solo sacrifici – meno carne, meno voli, meno consumi – ma anche ma anche piaceri: il giardino, il cibo vegetale, la bicicletta, il vintage. Sono pratiche sostenibili, ma anche fonti di gioia, creatività e comunità. E ciò che dà piacere dura di più: un cambiamento positivo tende a innescarne altri.

Un’altra leva sono i momenti di transizione. momenti di transizione. La ricerca mostra che i comportamenti si modificano più facilmente in periodi di cambiamento – trasferimenti, lauree, o shock collettivi come la pandemia. Durante i lockdown, molti hanno scoperto piaceri a basse emissioni: esplorare il territorio vicino, cucinare a casa, ridurre gli spostamenti. Con il giusto supporto, queste abitudini potrebbero consolidarsi.

Infine, le persone non hanno bisogno solo di motivazione, ma anche di strumenti concreti.Dire “mangia meno carne” o “riduci le emissioni” senza indicazioni pratiche genera frustrazione. Offrire invece risorse, workshop, feedback immediato – come i monitoraggi dei consumi – aiuta a costruire competenza e fiducia.

Le barriere istituzionali e il “nuovo normale”

Psicologia e comunicazione sono fondamentali, ma non vanno disgiunte dalle strutture istituzionali che modellano i comportamenti. Un altro saggio di Behavioral Scientist, Policies for Adapting to the New Normal of the Anthropocene,” sottolinea come la crisi ecologica affondi le radici nella fede occidentale nel capitalismo, nel mercato e nell’ottimismo tecnologico. Valori che alimentano l’illusione di poter continuare con il “business as usual” – crescita infinita– aspettando che mercati o gadget ci offrano soluzioni indolori.

Questa fede istituzionalizzata è un negazionismo collettivo: riduce la portata del cambiamento necessario e propone cerotti come auto elettriche o mercati del carbonio, senza mettere in discussione il paradigma della crescita. La teoria istituzionale mostra quanto valori e norme radicati resistano al cambiamento, anche davanti all’evidenza.

Il saggio individua cinque categorie di politiche trasformative: governance eco-sensibile (leggi sull’ecocidio, diritti della natura), riduzione dei consumi (economia circolare, diritto alla riparazione), centralità della scienza, visioni di lungo termine oltre il profitto immediato, e resilienza agli shock climatici. Tutte queste spingono contro il negazionismo ridefinendo ciò che la società considera importante.

Collegare negazionismo ed eco-ansia

Il negazionismo e l’eco-ansia non sono opposti, ma risposte intrecciate alla crisi climatica. Il primo anestetizza, la seconda travolge. Entrambi nascono dallo stesso scarto tra la grandezza della minaccia e l’insufficienza delle risposte sociali.

Colmare questo divario richiede un approccio multilivello::

  • Chiave di lettura psicologica: riconoscere il negazionismo come difesa umana, non solo ignoranza, e affrontarlo con empatia e strategie sensibili all’identità.
  • Riforma della comunicazione: sostituire catastrofismo e colpevolizzazione con messaggi positivi, concreti e di sostegno, che valorizzino gioia e comunità.
  • Cambiamento istituzionale: mettere in discussione la fede in mercati e tecnologie come panacee, adottando politiche orientate a un equilibrio ecologico duraturo.

Le indagini mostrano una crescente fiducia nella scienza climatica e preoccupazione per gli impatti. Le norme sociali, un tempo resistenti, possono cambiare in fretta – lo si è visto con il fumo o le cinture di sicurezza. Le crisi, pur dolorose, aprono spazi di trasformazione. E a livello individuale, pratiche sostenibili che portano piacere e significato rafforzano la resilienza senza logorare.

Il negazionismo climatico non è più confinato ai margini del dibattito sul “se” il cambiamento climatico esista. È radicato nei valori politici e culturali, nell’inerzia istituzionale, nei meccanismi psicologici che ci proteggono da verità scomode. L’eco-ansia, invece, è l’altra faccia della medaglia: la disperazione di chi non riesce a distogliere lo sguardo. Entrambe, se ignorate, rischiano di paralizzarci proprio quando servirebbe agire.

Ma allo stesso tempo, comprendere il funzionamento del negazionismo e dell’eco-ansia indica vie d’uscita. Riformando la comunicazione per dare spazio a gioia e agency, riconoscendo le resistenze, e sfruttando le occasioni di cambiamento istituzionale, si può trasformare la paralisi in azione. La crisi climatica non richiede solo nuove tecnologie, ma nuovi valori, nuove narrazioni e nuovi modi di stare insieme. La sfida è enorme, ma altrettanto lo è la possibilità di trasformazione.



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